Quando il comportamento omofobo va risarcito
Secondo la Corte di Cassazione (sentenza n. 1126/2015), 20 mila euro sono pochi per risarcire chi ha subito un comportamento omofobo dalla Pubblica Amministrazione, poiché ad essere stato violato è il diritto costituzionalmente tutelato della libertà di espressione della propria identità sessuale, annoverabile fra i diritti inviolabili della persona di cui all'art. 2 della Costituzione, quale forma essenziale di realizzazione della propria personalità.
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Il tutto ha origine il 12 maggio 2001, allorquando un giovane di 20 anni, durante la visita di leva, dichiara di essere omosessuale. Questa sua dichiarazione produce, da un lato, l'esonero dal servizio militare e, dall'altro, la convocazione, da parte della Motorizzazione civile (informata dal competente ospedale militare), per la revisione della patente e per nuovi esami, in ordine all'idoneità psico-fisica.
Da qui la decisione del ragazzo di citare in giudizio i competenti ministeri, per ottenere il pagamento di 500 mila euro a titolo di risarcimento del danno morale patito a causa del comportamento discriminatorio posto in essere dalle Pubbliche Amministrazioni e, quindi, per violazione della privacy.
A fronte della sentenza del Tribunale di condanna ad un risarcimento di 100 mila euro, in secondo grado, la somma viene ridotta a 20 mila euro, poiché la precedente era ritenuta esorbitante, alla luce della circostanza che l'atto discriminatorio e di violazione della privacy era sorto e si era risolto nella procedura di revisione della patente di guida.
Questa ermeneutica, però, non è stata condivisa dalla Suprema Corte, la quale ha accolto il ricorso proposto dal ragazzo.
Questi sono i fatti!
Dalla sentenza in commento, però, è possibile trarre delle conclusioni per comprendere quando è possibile agire in giudizio per ottenere un risarcimento danni causati da un comportamento omofobo.
Siamo nel campo del danno non patrimoniale, una materia dove la giurisprudenza fa la voce grossa, stante la pressoché latitanza del Legislatore.
I Giudici con l'ermellino, infatti, si sono ispirati e hanno fatto esplicito rinvio alle così dette sentenze gemelle di San Martino (Sezioni Unite Civili, nn. 26972 – 26973 – 26974 – 26975 del 2008) che subordinano il risarcimento del danno non patrimoniale:
1) a una violazione di un diritto costituzionalmente garantito, definito inviolabile;
2) ad una grave violazione dei diritti inviolabili, poiché le lesioni “trascurabili” (es. patemi d'animo o lievi turbamenti) non hanno alcuna rilevanza e possono essere tollerati, visto che, in qualsiasi contesto sociale, è inevitabile che gli individui possono creare reciprocamente delle lesioni sopportabli e che trovano soluzione all'interno del nucleo stesso.
Nel caso portato all'attenzione della Suprema Corte, infatti, la discriminazione subita dal ragazzo, come già anticipato, ha leso un suo personalissimo diritto costituzionalmente garantito, quello, ad esprimere la propria identità sessuale.
Ma come è possibile, se questa libertà non è esplicitamente riconosciuta, elencata e disciplinata dalla nostra Costituzione?
E' presto fatto: è necessario far riferimento all'art. 2 della Costituzione che si pone come un gran contenitore, che raccoglie, al suo interno, tutti i diritti inviolabili della persona che garantiscono, ad ogni cittadino, la realizzazione della propria personalità, la possibilità di autodeterminarsi, sia quale singolo individuo e sia quale membro di una formazione sociale.
Di conseguenza, il diritto a manifestare il proprio orientamento sessuale è un diritto inviolabile, perchè tramite il suo esercizio garantisce al singolo individuo di realizzare e manifestare la propria personalità.
La lesione di tale diritto, quindi, è stata ritenuta grave ed oltraggiosa per la personalità del ragazzo, tanto da indurre, nello stesso, “un grave sentimento di sfiducia nei confronti dello Stato, percepito come vessatorio, nell'esprimere e realizzare la sua personalità nel modo esterno”.
Alla luce dei principi che precedono, la Corte di Cassazione ha ritenuto che quanto riconosciuto dalla Corte d'Appello era irrisorio e, pertanto, ha ritenuto di rinviare allo stesso giudice di secondo grado, ma in diversa composizione (giudici, persone fisiche differenti da quelli che avevano reso la sentenza portata al vaglio della Cassazione), per la nuova quantificazione del danno.
Avvocato Gennaro Marasciuolo del Foro di Trani
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